
Joyland: la recensione
Joyland: la recensione dell’utimo romanzo di Stephen King. L’estate 1973 e un Luna Park infestato da un fantasma fanno da sfondo a una storia di formazione sentimentale e nostalgica.
Joyland è, oltre al titolo del più recente romanzo del Re del brivido Stephen King, il nome del Luna Park in cui il giovane Devin Jones (ribattezzato dai colleghi Jonesy), ventun anni e alto un metro e novantaquattro, va a lavorare nella caldissima estate del 1973.
Il romanzo è raccontato dal punto di vista di un Devin giunto alle soglie della pensione che racconta e ricorda la mirabolante estate che lo introdusse alla vita adulta.
Eh già: perché quando Devin va a lavorare a Joyland, nel Nord Carolina, è un ragazzo che non sa ancora come destreggiarsi con le sorprese della vita. Quando lo conosciamo ha da due anni una relazione con una coetanea che si guarda bene dal concedersi a lui (e infatti lo scaricherà presto dopo essersi trasferita a Boston, dopo un milione di bugie, gettandolo nel baratro).
Per cui questo ventunenne ancora vergine, un po’ depresso (ha anche perso la madre quattro anni prima), con saltuari pensieri di morte, che scrive poesie di cui si vergognerà da grande, legge Tolkien e ascolta costantemente i Doors e i Pink Floyd (The Dark Side of the Moon), decide di fare qualche soldo durante l’estate; affitta una stanza nella pensione di Ms Shoplaw e va a lavorare in un Luna Park come tanti: Joyland, appunto.
Qui impara la parlata di chi ci lavora (i clienti vengono definiti bifolchi o frollocconi) e scopre la geografia del Luna Park: il Muro del Tuono, la Ruota del Sud, il Castello del Brivido e via dicendo. L’estate vola veloce per Devin e i suoi due colleghi e amici Tom e Erin, con cui il nostro eroe condivide birre e patatine fritte davanti a un falò e numerose esperienze e disavventure.
Joyland, però, non è un Luna Park come tanti. Infatti, proprio lì, è stato commesso un omicidio, tanto che si dice che il Castello del Brivido sia infestato dal fantasma di Linda Grey, la ragazza assassinata.
Joyland è stato pubblicato in America dalla Hard Case Crime, con cui Stephen King aveva già pubblicato Colorado Kid nel 2005. Il romanzo è stato presentato come un hard boiled, ossia uno di quei classici polizieschi che affondano le loro radici nel noir.
Di certo posso dire che Joyland non è il classico romanzo che ti aspetteresti da King: non è horror e non è nemmeno un grande thriller, se vogliamo dirla tutta; non c’è tensione o suspance per la maggior parte del tempo (anzi, le prime 160 pagine le passi a entrare nell’atmosfera dei luoghi e a conoscere i riti e i personaggi che circondano il protagonista). C’è l’elemento del giallo, quello sì, ma passa in secondo piano.
Però, allo stesso tempo, Joyland è esattamente il romanzo che io mi aspetto da King: ha quel sapore nostalgico che avevano anche Cuori in Atlantide e Mucchio d’ossa.
Stephen King ha il dono di poter raccontare tutto quello che vuole con leggerezza e incanto, senza mai perdere l’attenzione del lettore, a cui descrive fondamentalmente i grandi momenti di passaggio della vita (infanzia e adolescenza): i ragazzini dodicenni de Il corpo (che al cinema diventerà Stand By me) che vanno alla ricerca di un coetaneo assassinato, i bambini di It che si trovano a dover fronteggiare due volte (anche da adulti) il terribile pagliaccio assassino; il protagonista di Un ragazzo sveglio (L’allievo), sedotto dalle teorie di un ex criminale nazista che vive nel suo quartiere.
Spesso King racconta le storie col senno del poi, con lo sguardo del protagonista diventato ormai adulto che ripercorre un’avventura specifica e indimenticabile del passato.
Joyland non fa eccezione. Però, se vi aspettate che la storia sia soprattutto incentrata sulla risoluzione del misterioso omicidio di Linda Grey, sappiate che non è così. Il mistero del fantasma mi sembra soprattutto un pretesto per aggiungere quel tocco di magico e soprannaturale, così caro a King, ad una storia di formazione e crescita piena di piste poco approfondite e depistaggi d’autore.
Consigliato.
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